
I racconti di Jee Young Lee in 360 x 410 x 240 cm
Giorni fa mentre si lavorava in ufficio ognuno alla sua scrivania, spunta la testa di Simone Conti dallo schermo del computer, ed entusiasta sbotta con “Questa fotografa la dovremmo proprio intervistare!!!”, quindi mi mostra delle foto davvero assurde che sembrano costruite con grande maestria di ritoccatore.
E invece no perché, mi spiega, si tratta di effetti ottici dati dalla costruzione di un set realizzato ad hoc per la realizzazione di ogni scatto.
Dopo diversi minuti in cui vengo rapita da immagini al tempo stesso vivaci e toccanti, mi decido e mando la mia richiesta per sapere se l’artista in questione avrebbe voluto rispondere alle mie domande.
Beh… ecco il risultato del suo “sì” 😉
Jee Young Lee è una fotografa coreana che a 30 anni s’impone con la forza espressiva delle sue immagini e con una fantasia e un’abilità uniche: infatti, crea i set nel suo piccolo studio di Seoul, che misura solamente 360 x 410 x 240 cm. Un piccolo spazio che di volta in volta si trasforma secondo il volere di Jee Young secondo una preparazione che va da alcune settimane a diversi mesi di lavoro.

FP: Quando hai cominciato a fotografare? La tua è “solo” una passione o anche una professione?
Hai mai frequentato lezioni, corsi o workshop dal vivo di fotografia?
JYL: Si può dire che la mia formazione “professionale” nella fotografia non abbia avuto inizio fino al 2007 quando sono stata accettata alla scuola di specializzazione; la materia principale del mio corso di laurea era visual communication design. Il curriculum di studi prevedeva un corso di fotografia, ma era solo a livello introduttivo; sono entrata alla scuola di specializzazione per dare uno sguardo più profondo all’interno del mondo della fotografia.
FP: Quando hai capito che limitarti a scattare foto del mondo intorno a te non era abbastanza per rappresentare le tue idee, ma che avevi bisogno di costruirle concretamente e quindi realizzarne degli scatti?
JYL: Il mio obiettivo nel fare foto era catturare i momenti nella vita reale, anzi, si trattava di una scelta cosciente dal momento che sentivo che ciò mi avrebbe aiutato ad esprimere al meglio i miei concetti che avevo in mente. Ho consegnato alcuni miei lavori fotografici in occasione dello spettacolo di fine anno per la laurea.
Questo ha gettato le basi delle miei progetti attuali.
Credo che sia cambiato qualcosa quando ho realizzato che la fotografia poteva essere utilizzata per catturare e registrare le cose in un modo diverso da come le vediamo normalmente. Ho preso ispirazione dalla mia esperienza, dalle situazioni che ho vissuto, dalle mie emozioni. Le scene che costruisco nella mia mente basate su questi elementi sono estremamente reali per me, ma allo stesso tempo non lo sono perché esistono solo nella mia testa.
Volevo portare alla luce i miei paesaggi mentali, e per farlo ho scelto la fotografia come mezzo perché quello che viene catturato nella fotografia assume un’accezione reale, concreta. Inoltre, le fotografie possono suggerire molto di più di ciò che incontra l’occhio.

FP: Penso di poter affermare che per te costruire i tuoi set (più che scattare le foto in sé) sia una specie di atto catartico. Mentre guardavo le tue foto, nelle quali compari sempre senza un’identità, ho pensato che nei momenti in cui posi nel bel mezzo della tua realtà, costituita da memoria e fantasia materializzate, tu possa essere “un’altra te” e, allo stesso tempo, una te purificata.
Mi sono chiesta: cosa succede quando il set è già stato utilizzato e dev’essere smontato? Cosa provi nel smantellarlo? È in quei momenti che, magari, provi un senso di liberazione?
JYL: Quando devo buttare giù un set, mando la mia vecchia me stessa indietro, nel passato, e accetto la mia nuova me. Le mie fotografie sono per me un collegamento tra la me passata, quella presente e quella futura. È vero che provo una specie di catarsi, così come sento una certa malinconia quando devo disfare una scena. Se il processo di creazione è il mio modo per studiare il mio passato, il processo di smantellamento mi permette di spezzare le catene e liberarmi dall’esperienza.
Di solito devo chiamare un camion per disfarmi dei detriti.
FP: Cosa intendi comunicare alle persone? Cosa a te stessa?
JYL: Il tema conduttore di tutto il mio lavoro è la vita. Sicuramente si concentra sulle mie emozioni ed esperienze personali, ma so che si tratta di una storia che può toccare le corde dei miei coetanei.
Voglio che la gente senta una connessione emozionale ed empatizzi con i miei sentimenti sulla vita. L’atto stesso della mia creazione nasce da una forte volontà di comunicare; voglio entrare in contatto con le persone e conversare cuore-a-cuore.
FP: Qual è il problema maggiore che hai incontrato nella realizzazione di un set? Riesci sempre a far combaciare quello che fai con l’idea che ne avevi avuto?
JYL: Per esempio, per completare il set di “Treasure Hunt” mi ci sono voluti tre mesi interi. Ho dovuto impiegare quasi 8 ore al giorno per tendere i fili metallici su delle reti per ottenere una copertura erbosa del pavimento.

Le mie fotografie sono molto metaforiche e sono ispirate alla mia storia personale. Ogni pezzo ha un racconto in sottofondo che lo guida. A volte le storie sono intrecciate ad altri ricordi ed esperienze nel processo di visualizzazione.
“Treasure Hunt” esprime le difficoltà nel realizzare i miei ideali. La scena stessa viene dai miei ricordi d’infanzia. Come si può vedere, sto cercando qualcosa nell’erba di notte; quando ero una bambina, andavo a trovare i miei nonni che abitavano in campagna ogni fine settimana. Guardavo le lucciole volare nei campi nelle notti più scure. C’è un vecchio detto che recita “cercare un ago in un pagliaio”. Ecco, come puoi vedere l’idioma è stato incorporato ai miei ricordi d’infanzia per creare questa fotografia in cui sto cercando qualcosa nell’erba di notte.
FP: Parliamo un po’ della tua attrezzatura: cosa c’è nella tua borsa da fotografa?
JYL: Un banco ottico (grande formato 4×5) Toyo Field 45A II Pro, un obiettivo 90mm Sinaron-W, esposimetro, standarta posteriore, chassis caricato con pellicole istantanee (polaroid), telo per la messa a fuoco, cavo di rilascio per l’otturatore, piastra per l’attacco, una pipetta per la pulizia della macchina e una lightbox portatile.
Mi piace testare gli scatti con le pellicole istantanee a colori 4×5. Sono piuttosto triste per il fatto che la pellicola polaroid che sono solita usare non sia più prodotta, diventa sempre più difficile da reperire al giorno d’oggi.
FP: Scatti anche in digitale o solo a pellicola?
JYL: La macchina fotografica che preferisco usare è il banco ottico 4×5 della TOYO. Ho una predilezione per la pellicola, quindi mi affido al digitale solo se ho un buon motivo per farlo. Solo due fotografie della serie “Stage of Mind” sono state scattate con una macchina fotografica digitale. Ad esempio, ho dovuto usare il digitale per “My Chemical Romance” per riuscire a fotografare sia il fumo che il cane nero che camminava; sarebbe stato estremamente difficile da ottenere con l’analogica.

FP: Qual è il tuo rapporto con Photoshop ed il fotoritocco in generale?
JYL: È importante che il mio set abbia il senso di una rievocazione/realtà, quindi ho scelto di non intervenire sulle mie fotografie. Se avessi dovuto modificare le mie foto, allora non le avrei mai scelte come mezzo per il mio lavoro. Utilizzo Photoshop soltanto per togliere i fili da pesca che uso per appendere gli oggetti dal soffitto.
FP: Ci sono dei fotografi che ti ispirano particolarmente?
JYL: Jeff Wall e Sophie Calle sono i miei preferiti.
FP: Che cosa ti piace fotografare quando non devi lavorare in studio?
JYL: Mi piace scattare delle istantanee quando passo del tempo con i miei amici. Annoto tutto quello che trovo interessante e stimolante; non credo di scattare più foto di quanto non facciano le persone nella media, però.
FP: C’è uno speciale progetto fotografico di cui sei particolarmente orgogliosa e magari ne vuoi condividere un’immagine con noi?
JYL: “Anxiety” è molto speciale per me. Il lavoro consta di due parti: video e fotografia. Rappresentano il regno del cosciente/esteriore e il regno del subconscio/interiore.
Ho assunto un’attrice e registrato la sua performance in un video. La parte video di questo pezzo ha un approccio molto diretto alle emozioni.
“Anxiety” è stato un esperimento per me nel quale ho separato la mia interiorità su due livelli – il conscio e il subconscio – come avere un sogno nel sogno.

FP: Jee Young, ti ringrazio per il tempo che hai dedicato all’intervista!
Per chi volesse vedere altri lavori di Lee, può trovarli a questo indirizzo: www.opiomgallery.com