
Intervista ad Alessandro Rizzi: la Fotografia dell’Urgenza e della Meraviglia
È un processo vitale di vita che chiama vita che chiama vita indirizzandomi verso le cose… La fotografia la si fa prima di farla, nelle ore in cui la si sogna, la si pensa, la si desidera. Se la qualità delle cose che penso è densa, allora la fotografia ne risentirà.
È un desiderio enorme di meraviglia per cui la fotografia sembra essere uno delle migliori pratiche di ricerca.
Alessandro Rizzi nasce a Reggio Emilia nel Dicembre del 1973.
Negli ultimi 10 anni ha vissuto tra Italia, Cina, Libano e Giappone, lavorando al suo Never Ending Project sulle grandi città del mondo e collaborando a diversi progetti editoriali in Italia e all’estero.
Dal 2001 al 2009 ha fatto parte dell’agenzia Grazia Neri e GettyImages, negli stessi anni ha vinto il premio 3M Italia come miglior fotografo italiano.
I suoi lavori sono stati esposti in Europa, Stati Uniti, Medio Oriente e Asia in Festival and Solo exhibitions.
Ha tenuto lectures e lezioni su invito di: Institute Center of Photography di New York , Fondazione Capri, Domus Academy, American University of Beirut, Università di Teramo e Pescara, Domus Magazine, Planar Bari, Fondazione Zimei.
Il suo primo libro, “Vision From Another World” edito da Damiani Editore, è stato oggetto di review e portfolio su diversi magazines internazionali.
Il suo secondo libro, “SCULPTURES” di Yard Press (2015), legato agli eventi di Ferguson e alla comunità afro-americana, è stato inserito da Kaleid Editions London tra i 30 migliori libri d’arte del 2016 ed è entrato nelle collezioni permanenti del M.o.M.a. e del Metropolitan Museum.
Flash Art, Arte e Critica, Velvet e Time Magazine lo hanno inserito tra i maestri della street photography.
Avevamo già intervistato Alessandro Rizzi nel 2009, e poco tempo fa ho deciso di riprendere il filo e di vedere dove mi avrebbe portata. Voglio condividere con te questo percorso fatto di domande e risposte, che lasciano davvero quella meraviglia che Alessandro va cercando con le sue fotografie.
UNO.
Partiamo leggeri: cos’è la Street Photography?
La Street Photography per me è soprattutto un modo di guardare il mondo, la possibilità di meravigliarsi per una serie di piccolissimi e continui avvenimenti del reale che ad ogni attimo rilascia significato e bellezza.
È una procedura, uno studio, un lavoro attorno alle cose per svelarne gli aspetti più densi e a volte ironici.
È la possibilità di innamorarsi di un palazzo, di un’ombra, della gestualità delle persone.
Ecco io tengo molto a tutte queste cose con un accento particolare alla gestualità degli esseri umani, ai corpi e alla modalità con il quale occupa e utilizza gli spazi.
DUE.
La Street è considerata dagli stessi fotografi come una passione/progetto personale artistico più che come un genere commerciale vero e proprio, per cui questi fotografi tengono a fare foto in campi che, magari, li interessano meno perché “ci pagano le bollette”.
Come si concilia la Street Photography con la necessità di farsi pagare?
L’unica possibilità di pagarsi le bollette con la StreetPhotography è quella di avere una storia come fotografo. Una storia carica di immagini che dicano di una vita dedicata a raccontare il mondo, dedicata alla costruzione del proprio abaco visivo, lettere di un alfabeto personale da far incontrare con la vita. Da lì possono discendere a cascata tutta una serie di possibilità pratiche, fatte di ammiratori, di contatti, di collezionisti o di pubblicazioni su riviste e infine di libri, il risultato ancora più importante per un fotografo. Oggetti e relazioni che a volte sono il lasciapassare per soddisfazioni anche di tipo economico.

C’è anche un altro aspetto che contribuisce a fare di una passione la modalità con cui pagarsi la vita ed ha a che fare con la resilienza, con la determinazione. Il sentire la fotografia come una compagna, non come un progetto.
L’idea di progetto ha e ha avuto moltissimi estimatori ma è una sibilla conturbante che rischia di lasciare meno del promesso sia in termini emotivi che in termini pratici, per questo credo che la propria fotografia vada misurata non relativamente a questo o quel progetto ma vada vissuta, pensata, elaborata rispetto a se stessi, solo così la si rende indispensabile e fedele.

È possibile, OGGI, fare il fotografo Street o il fotografo reportagista professionista? Se sì, come?
Sì, è possibile attraverso un percorso senza sosta che contempli: pensiero, scatto, relazioni, una propria postproduzione, talento e comprensione del mercato.
Dicendoci la verità, l’unico paese al mondo in cui la streetphotography dà vita a cose di un certo spessore è l’America. Fuori dagli Stati Uniti si fanno chiacchiere a volte condite da una bella mostra ma non si trovano interlocutori davvero illuminati o pronti a mettere soldi per lo sviluppo e la crescita di un fotografo. Anche il mondo della agenzie di adv ( pubblicità ) qui in Italia o in generale in Europa è incredibilmente miopie rispetto all’America.
Il mantra delle agenzie di pubblicità qui in Italia è quello di cercare fotografi cha abbiano già fatto fotografie uguali o molto simili a quelle dei briefing, quindi in pratica si ripercorrono idee vecchie e poco sperimentali. Negli States è l’esatto opposto, almeno quando si parla di livelli alti.
TRE.
Quanto del tuo lavoro è reportage e quanto è dedicato ad una visione artistica?
Non me lo sono mai chiesto perché faccio la mia fotografia. Non so se sia arte o meno ma sì, credo si possa parlare di una mia visione delle cose.
Mi interessa la strada, la vita, la realtà per come sono in grado di sentirla, è una forma di narrazione che a volte tocca il reportage.. ma dipende anche molto dagli eventi.
In questo senso, che ruolo ha l’artista nel mondo della fotografia?
Sempre di più assisteremo alla celebrazione di fotografi giornalisti per i quali la fotografia sarà un compendio colorato e strappa Wow; per questi la fotografia sarà soprattutto produrre notizie colorate!
Altri invece sperimenteranno sempre di più linguaggi, tecniche e visioni. Apprezzo entrambi ma sono soprattutto interessato al lavoro di ricerca perché credo che ci sia una potenza senza fine che nasce nell’ incontro tra l’infinitamente vicino e l’infinitamente lontano. La profondità delle storie di ognuno di noi è il miglior motore per scavare dentro la rappresentazione delle cose della vita.

QUATTRO.
È possibile insegnare un modo di vedere il mondo, una visione, o per il fotografo è possibile “solo” condividere la propria e lasciare che attecchisca e si sviluppi in chi desidera apprenderla?
È possibile insegnare ad attivare alcuni canali sensoriali, emotivi, diversi per ognuno di noi sia in termini biologici sia in termini di Knowledge, di conoscenza. Per questo nei miei workshop insisto moltissimo con lo studio dell’arte, del cinema, della letteratura come momenti espansivi della coscienza.
Io tendo a mostrare queste attivazioni visive e come si può imparare a riconoscerle. Non sopporto i fotografi che creano discepoli fotocopie.
Insegno come lasciare che il proprio sguardo sia rapito dalle connessioni, dalle gestualità. Corto circuiti sinaptici fondamentali per VEDERE quello che accade, per innamorarsi di un’ombra, di un foglio che vola o del modo con il quale due persone si salutano.
CINQUE.
Narrazione (storytelling) e visione: come sono collegate fra loro? Possono esistere l’una senza l’altra?
Storytelling e visione sono legate solo se esiste il talento della visione nel fotografo. Un’ottima storia si può costruire anche con molti altri strumenti narrativi ma non è detto abbia un suo spessore visivo, una profondità di sguardo.
SEI.
Come racconta Alessandro Rizzi?
Racconto nel solo modo che conosco.
È un processo vitale di vita che chiama vita che chiama vita indirizzandomi verso le cose… La fotografia la si fa prima di farla, nelle ore in cui la si sogna, la si pensa, la si desidera. Se la qualità delle cose che penso è densa, allora la fotografia ne risentirà.
È un desiderio enorme di meraviglia per cui la fotografia sembra essere uno delle migliori pratiche di ricerca.

SETTE.
Recentemente, in un post sul tuo profilo Facebook hai scritto: “La fotografia dell’urgenza è l’unica che mi interessa, una fotografia del mondo che possa sentire davvero mia. Il bisogno di capire di più, di guardare con densità nelle pieghe delle cose (…). L’urgenza di dare un senso al mondo, questo fanno i veri fotografi”.
Il fotografo, secondo te, lavora tentando di dare un senso al SUO mondo, o questa risposta è allargabile e comprensibile anche per il pubblico? In che modo?
Credo ci siano dei livelli consapevoli e dei livelli inconsapevoli.
Per tutti vale il fatto che fare qualcosa è già un tentativo di dare senso al proprio mondo, ma chi né è consapevole passa attraverso un livello più denso che tocca prima la paura e poi coraggio.
È il coraggio di affermare chi si è, cosa si ama e quindi cosa si difende. Ci siamo disabituati alle complessità emotive e quindi anche a difendere pubblicamente un certo mondo poetico fatto di eventi minimi. Non credo nei faciloni, negli inconsapevoli e so che è strano sentire parlare di fotografia in questi termini ma la fotografia non è niente altro che andare verso qualcosa.
Il fotografo può lavorare su molti livelli e in molti ambiti, quando ho scritto questo post pensavo all’unica fotografia che mi interessa che è quella di cui parlavo sopra, quella che mi fa sentire vivo, a Beirut come nella campagna emiliana, in sostanza quando provo Meraviglia.
OTTO.
Dalle tue parole traspare quasi un senso di solitudine, o singolarità, del fotografo in mezzo al mondo. È così?
Se sì, come concili questa tendenza intima alla ricerca con la necessità del professionista di fare network? Che cos’è il “fare network” per il fotografo Street?
A questo proposito, ricordo che nella precedente intervista pubblicata su FotografiaProfessionale avevi detto che “Quando c’è una rete di persone che ti conoscono e ti stimano tutto diventa più facile, ma la stima la si costruisce sul buon lavoro e non sugli apertivi come molti credono”
Un fotografo sarà costretto a essere solo, poi in mezzo agli altri, poi ancora solo e subito dopo parlare davanti a tante persone.
Oggi essere fotografo significa imparare a gestire momenti e ambiti così diversi da poter sembrare schizzati anche a se stessi.
Fa parte del gioco, a volte produce adrenalina a volte stanchezza. Bisogna sempre ricordarsi che per quanto sia difficile è un privilegio enorme essere pagati per guardare il mondo.

NOVE.
Torniamo terra a terra: come fotografo Street, quanto influisce l’attrezzatura con cui scatti? In base a quali fattori la scegli?
L’attrezzatura è fondamentale in quanto produce estetiche diverse a seconda di cosa si utilizzi.
Non mi interessa che una macchina abbia caratteristiche incredibili in termini di velocità, modalità di registrazione del RAW, sviluppo in macchina o peso.
Ho utilizzato macchine come la Makina Plaubel 6×7 a telemetro per realizzare tutto il mio primo libro “Vision From Another World”, così come una 6×12 cinese con ottica tedesca che dovevo completamente settare manualmente compreso il fuoco e le distanze dei soggetti in movimento.
Ora utilizzo sia alcune piccole Panasonic che le mie adorate Sigma con sensore Foveon oltre che un ALPA con dorso Hasselblad.
Le Sigma per esempio lavorano benissimo quando ho bisogno di delicatezza nel colore e profondità dell’immagine cosa che con le digitali in generale è molto difficile da ottenere. Il mio ultimo libro è scattato interamente con Sigma Dp quattro.

DIECI.
Parliamo di “SCULPTURES”, il tuo Instant Book: com’è nato e com’è nata la grande risonanza che ha avuto, tanto che è stato acquisito dal MoMa, dal Metropolitan Museum e dalla Oslo Academy of the Arts?
SCULPTURES è un progetto che nasce dalla fine della mia storia d’amore con la mia ultima compagna, una donna italo-afro-americana. Avevo bisogno di chiudere un cerchio emotivo e di senso e, come ti dicevo sopra, la fotografia è semplicemente la mia vita per cui ho messo tutto lì dentro.
I fatti di Ferguson nell’estate del 2014 mi hanno fatto riflettere molto sulla relazione tra le persone di etnia diversa, sulle strutture delle società e sul mio ruolo di fotografo, così è nato SCULPTURES. È un libro pensato per mesi in ogni suo aspetto e scattato in sole 7 ore il 13 Dicembre del 2014 a Washington DC durante la più grande manifestazione di protesta dei nero afro-americani contro le violenze della polizia, dai tempi di Martin Luther King.
Sì, è vero, SCULPTURES ha ricevuto un’eco molto molto grande sia in termini di progetto che di design del libro. Tra l’altro è il primo di una trilogia per cui spero che anche i prossimi due ricevano ottimi feedback.
Per quanto riguarda il M.o.M.a. il MET e le altre istituzioni internazionali che l’hanno inserito nelle loro collezioni d’arte, tutto nasce da un precedente premio che ho vinto a Londra essendo stato inserito tra i trenta migliori artisti a livello europeo che hanno fatto libri tra il 2015-2016. Da quel premio è nato la possibilità di accedere al M.o.M.a. ed altre istituzioni.
Adesso che hai letto l’intervista fino alla fine, posso dirtelo: alcune risposte mi hanno emozionata al punto di commuovermi 🙂
Spero sia successo lo stesso anche a te, o magari anche solo il sentire che qualcosa dentro di te si muoveva e restava a bocca aperta…
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Grazie Alle!
Alla prossima intervista.
Gloria